G e o r g e t t e

“Non è il mio stile”

Dai precedenti articoli di Georgette avrete senz’altro intuito che tendiamo a suddividere il mondo in categorie che creiamo sulla base delle caratteristiche di ciò che esiste. Ognuno di noi appartiene a tante categorie sociali: uomo o donna, studente o lavoratore, dipendente o libero professionista, eterosessuale o omosessuale, adulto, giovane, adolescente, anziano e un’infinità di altre. Queste etichette che ci applichiamo sono talmente rilevanti che vengono menzionate per prime quando ci descriviamo. Provate a commentate questo articolo rispondendo alla domanda: “Chi sei?” e vediamo quante categorie usate per presentarvi.

“Identità sociale” è il nome che la psicologia ha dato al risultato di un articolato processo di autocategorizzazione del sé.

Nella moda si sviluppano stili coerentemente con l’emergere di nuovi attributi, qualità e aspetti distintivi di persone che vengono percepite dagli altri e da loro stesse come una categoria. Scegliere dei capi d’abbigliamento per se stessi quindi è conseguenza del meccanismo di costruzione e consolidamento dell’identità e ad ogni stile corrispondono delle caratteristiche che vengono automaticamente attribuite a coloro che lo seguono. Quando uno dice un po’ contrariato al commesso “non è il mio stile”, è come se dicesse “non sono io”.
In questa sezione del blog troverete passo passo un articolo per ogni stile, ovvero per ogni categoria sociale, o per meglio dire per ogni classe di caratteristiche, nonché per ogni identità.

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Lo faccio per me stessa

Una sposa il giorno del suo matrimonio, un’attrice sul “red carpet” e noi, tutte le volte in cui sentiamo la necessità di dirottare l’attenzione altrui su di noi stessi, istintivamente indossiamo degli abiti vistosi, più stravaganti del solito, meno anonimi di quelli che indossiamo quando non ci interessa il centro dell’attenzione. Sfortunatamente, gli altri prestano molta meno attenzione al nostro aspetto e al nostro comportamento di quanto noi immaginiamo! Questa non è una banale affermazione disfattista e scoraggiante, ma si tratta di un reale fenomeno comune a tutte le persone: comunque vada nel momento in cui vi è la consapevolezza di essere sotto i riflettori, la portata dell’attenzione percepita rivolta su di noi è sempre maggiore a quella reale. In un esperimento (Gilovich 2010) ad alcuni studenti veniva fatta indossare una imbarazzante giacca alla Barry Manilow (un cantante statunitense noto per la sua stravaganza) prima di entrare in aula con altri studenti. Solo il 23% dei compagni notò la giacca, mentre il 50% di coloro che la indossavano era convinto che sarebbe stato notato.

Ciò che è vero per abiti bizzarri, pettinature ridicole e apparecchi odontoiatrici ad esempio, lo è altrettanto per le emozioni: irritazione, ansia, mani sudate, disgusto, gaffe sociali e lapsus in pubblico.

“Non esiste argomento più interessante per le persone delle persone stesse. Per buona parte degli individui, inoltre, la persona più interessante in assoluto è il sé”
Roy F. Baumeister, The self in Social Psychology, 1999

Un’altra grande funzione tra le innumerevoli che noi diamo all’abbigliamento e alla cura di noi stessi in generale è la creazione di un ruolo. Il primo giorno di scuola o di lavoro qualcuno può essersi sentito supersensibile alla nuova situazione, altri forse solo un po’ imbarazzati, ma di sicuro avete provato valorosamente a comportarvi in maniera naturale e a sopprimere i comportamenti che in precedenza, quando occupavate altri ruoli, (ad esempio studenti delle superiori) vi si addicevano. In tali occasioni si sta attenti a tutto ciò che ci circonda e che facciamo, poi un giorno diventa tutto naturale, i nostri comportamenti non sono più forzati. Il ruolo comincia a calzare bene quanto “il vecchio jeans”. E’ quello che successe a Stanford quando alcuni studenti passarono volontariamente alcuni giorni in una prigione simulata, creata ad hoc per l’esperimento: alcuni di loro indossarono uniformi e impugnarono manganelli e fischietti, altri erano chiusi in celle e vestivano uniformi umilianti. Dopo il primo giorno di recitazione allegra e divertita, le guardie cominciarono a denigrare i prigionieri e alcuni idearono delle procedure crudeli. I prigionieri diventarono apatici o si ribellarono. “Si sviluppò una crescente confusione tra il gioco di ruolo e la propria identità ” Zimbardo (1972).

E’ il luogo che modella le persone o sono le persone a creare le caratteristiche di un luogo? Sono gli abiti indossati che delineano le persone o sono le persone che scelgono gli abiti che si addicono a loro? La teoria dell’autopercezione (Daryl Bem, 1972) ipotizza che osserviamo il nostro comportamento e le circostanze in cui avviene per dedurre quali sono i nostri atteggiamenti: ho comprato questo paio di scarpe costose perché mi piacciono, dunque sono una persona che è disposta a spendere/investire sull’abbigliamento.
Questo spiega anche il motivo per cui adesso è così tanto di moda indossare le sneakers fuori dalle attività sportive: a tutti piace l’immagine di se stessi sempre sportivi e in forma!

Stile africano

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Perché ci si conforma? | parte 2

“Voglio che troviate la vostra camminata adesso, il vostro modo di correre e passeggiare, in ogni direzione, comunque vogliate, che sia fiero o che sia sciocco, sta a voi. Non dovete dare spettacolo, lo fate per voi stessi.” da L’attimo fuggente

Otto persone sono sottoposte a una prova: stabilire quale linea, tra le tre presentate in una scheda, è di lunghezza pari a una linea campione disegnata in un’altra scheda. La prova si ripete per 18 volte con linee diverse e si esprime un partecipante alla volta. Delle otto persone però, sette sono complici di chi conduce l’esperimento e solo uno è l’ignaro soggetto sperimentale ed è il sesto a dare il proprio giudizio riguardo le linee. Le prime due volte tutto procede come previsto, ma alla terza prova (e per altre 12 volte) i cinque complici che precedono il soggetto sperimentale danno risposte uguali, ma palesemente errate. Egli si trova di fronte al fatto che la maggior parte del gruppo dà risposte sbagliate, ma concordi!

Questo è un famoso esperimento sul conformismo (Asch, 1956), che venne condotto più volte con altri soggetti. Risultato: il 75% di loro si conformò almeno in una delle prove alle risposte palesemente errate dei compagni. Il 25% che mantenne la propria opinione ammise di aver provato un profondo disagio. Questa forma di conformismo si chiama “influenza normativa“.

Esistono numerose ricerche che dimostrano che siamo attratti da coloro che hanno atteggiamenti simili ai nostri (Byrne, 1971), o più esattamente che respingiamo quelli che hanno atteggiamenti diversi. Dunque la conclusione viene da sé, più assomigliamo agli altri, più è facile che essi ci valutino positivamente. Così noi, che siamo geneticamente programmati a formarci un’identità sociale positiva e stimabile, la quale dipende da come crediamo che gli altri ci valutino, cerchiamo di assomigliare agli altri. Il fattore chiave della nostra adesione alle tendenze, questa spinta al conformismo, è l’aspettativa del consenso: quando assumiamo certi comportamenti “di moda”, evitiamo la possibilità del ridicolo sociale perché sappiamo che gli altri approveranno tutto ciò che facciamo, altrimenti criticherebbero negativamente loro stessi.
Essere considerati “out” significa psicologicamente non far parte di un gruppo ed essere “outgroup”. Quando non ci conformiamo infatti, è perché non vogliamo integrarci con coloro che riteniamo essere portatori di certe caratteristiche per noi non auspicabili. L’anticonformismo in definitiva non è un atto eroico di ribellione e di intrepido rifiuto di idee, usi e comportamenti convenzionali. E’ la semplice conseguenza di non essere parte di un certo gruppo, di considerare se stessi appartenenti a un gruppo diverso. Se una ballerina dell’accademia di balletto classico non abbraccerà la nuova tendenza della prossima primavera che ripropone top mini, pattern geometrici e pantaloni a zampa di elefante con frange alla “disco inferno”, è perché si riconosce come persona di rigore, classe e naturalità, quindi il sandalo a piattaforma non le appartiene e lei non vuole appartenergli, altrimenti non sarà più conforme a coloro da cui vuole essere ben valutata.

Perché ci si conforma? | parte 1

“La società è organizzata non tanto dalla legge quanto dalla tendenza all’imitazione”

Carl Gustav Jung

Con il termine conformismo in psicologia sociale si intende la tendenza ad approvare l’opinione di un’altra persona o di un gruppo di persone e, di conseguenza, ad agire in modo diverso da quanto avremmo fatto da soli.

In passato il conformismo è stato considerato un fenomeno irrazionale. Gli esponenti della psicologia delle masse erano convinti che esso nascesse dalla perdita del senso critico delle persone e della loro individualità. Oggi non si pensa più che l’individuo che subisce influenza sociale sia acritico. Comunemente il conformismo viene condannato, in realtà esiste un diffuso conformismo quotidiano dagli esiti positivi. La vita sociale sarebbe insostenibile se le persone non convergessero nei pensieri e nei comportamenti.

Ciò che facciamo quando scegliamo come presentarci esteriormente, non è diverso da ciò che facciamo quando, ad esempio, esprimiamo un qualunque giudizio: ci appoggiamo alla maggioranza.

Questo è il primo processo che ci permette di valutare l’ adeguatezza delle nostre credenze, idee, opinioni e si chiama influenza sociale informativa, proprio perché cerchiamo nella maggioranza delle informazioni guida. Ci conformiamo agli altri perché non siamo sicuri su cosa fare.

Immaginiamo di essere ad una cena di gala e di non conoscere le regole dell’etichetta da seguire; osserveremo gli altri e ci conformeremo a loro. Infatti la conformità aumenta in situazioni nuove, ambigue e quando non si è sicuri, specie se pensiamo di avere a che fare con altri ben informati. Perciò, anche per verificare se la nuova giacca è veramente bella come la valutiamo, usiamo come strumento di misurazione il grado d’accordo della maggioranza. Anche per esprimere giudizi su questioni sociali e politiche che non abbiamo ben chiare cerchiamo di capire cosa ne pensa la maggioranza e veniamo influenzati di più se per noi quell’argomento è rilevante.

La differenza tra le persone sta solo nel loro avere maggiore o minore accesso alla conoscenza. (Lev Tolstoy)

E’ possibile confermare sperimentalmente questa ipotesi tramite l’esperimento di Sherif: i soggetti che si trovavano in una stanza completamente buia dovevano fornire un giudizio altamente soggettivo sull’ampiezza del movimento di un puntino luminoso, che in realtà stava fermo, ma che per loro si muoveva a causa di un effetto ottico (effetto autocinetico). Di fronte a questa incertezza, i giudizi dei soggetti mostrarono una tendenza a convergere rapidamente. Gli individui, nel caso si presentino loro situazioni ambigue arrivano a considerare come giusta la definizione di una situazione data dagli altri.
Inoltre, tutto ciò che è non convenzionale, come un capo, un abbinamento, un orientamento sessuale, uno stile di vita, un’arte o un qualsiasi comportamento che agli occhi (o alla mente) delle persone è discutibile, sicuramente non è proprio della maggioranza, perciò o non viene approvato o viene considerato alternativo, anticonformista, deviante. Se un individuo invece ha abbastanza sicurezze e informazioni consolidate per formarsi un giudizio su elemento, non vi è conformismo.

Più vi informate, più siete liberi dall’influenza degli altri.

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Uomini e donne


Perché a una donna non bastano le tasche? Non rispondetemi che hanno bisogno di più spazio e quindi usano la borsa per il trasporto degli oggetti. Molte volte infatti una donna si può permettere di portare con sé solo cellulare (a patto che sia di media dimensione), chiavi e banconote, perché il portafoglio è più grande della borsa stessa.
Lei non userà mai le tasche, che quando, come accade spesso, sono stragonfie, finiscono per deformare gravemente la linea data al capo.
Fin dove c’è spazio per le variazioni individuali, le donne si danno da fare per rendersi uniche.
Gli accessori femminili infatti, sono molto più fantasiosi e fini a sé stessi di quelli maschili e in generale la gamma di indumenti che una donna può scegliere è molto più vasta.

Nei secoli scorsi però, l’abbigliamento maschile era carico di ornamenti al pari di quello femminile ed è alla fine del 1700 che inizia la rinuncia degli uomini alle forme di decorazione più brillanti e sfarzose.
Fino ad allora donne e uomini gareggiavano in splendore ed eleganza, mentre in seguito solo la donna è stata ed è tutt’ora depositaria della bellezza e della creatività, sia pure nel senso strettamente sartoriale. L’abbigliamento maschile diventa molto sobrio e austero, l’uomo abbandona la pretesa di essere bello e si preoccupa unicamente di essere ordinato e pratico.
Questa tendenza alla semplificazione e all’uniformità dell’abbigliamento maschile deriva, in origine, dallo sconvolgimento sociale della Rivoluzione Francese (valori come l’uguaglianza) e dai nuovi valori commerciali e industriali che tenevano gli uomini in negozio e in ufficio, non più nei salotti.
Così l’uomo moderno è molto più rigoroso e rigido della donna per quanto riguarda l’abbigliamento, dimostrando implicitamente il rispetto per i principi di dovere, rinuncia e autocontrollo.
L’abbigliamento femminile è rimasto più vistoso degli uomini per tradizioni sociali, ma ora che le donne svolgono un ruolo nettamente più attivo nella vita sociale e lavorativa, vestono anche in modo simile alle altre con poche decorazioni, almeno nelle ore di ufficio.
Un’evidenza da richiamare all’attenzione è il fatto che nelle donne tutto il corpo è sessualizzato, mentre negli uomini l’erotismo è più specificamente concentrato nella zona genitale. Ciò significa che qualsiasi parte del corpo femminile ha un significato molto più erotico della corrispondente parte maschile. Per questo la donna è il più pudico e al tempo stesso il più esibizionista dei due sessi e anche se viene coperto, è probabile che rimanga comunque una certa coscienza del corpo sotto ai vestiti.


Un abito dovrebbe essere stretto abbastanza per mostrare
che sei una donna e sufficientemente morbido da provare
che sei una signora.

(Edith Head)

 

Volumi e illusioni.

I vari vantaggi e le soddisfazioni che derivano dall’abbigliamento sono basate psicologicamente su un’illusione conosciuta dagli psicologi come “confluenza”.

In questo tipo di illusione la mente non distingue tra due cose che in altre circostanze sarebbero facilmente riconoscibili ed attribuisce ad A quello che in realtà appartiene a B così che A sembra subire un aumento.

E’ per questo che indossare abiti larghi fa sembrare più larga la figura: perché l’ingrandimento, in realtà dovuto agli abiti, viene inconsciamente attribuito al corpo che li indossa, dato che è la parte più interessante dell’insieme.
Così dei pantaloni a vita alta e a zampa di elefante in una figura piccola creano un effetto percettivo di estensione della gamba, ma anche del busto.

Ma perché allora si consigliano abiti ampi, tessuti morbidi e forme voluminose a chi vuole apparire più snello? Non si rischia di far apparire il tutto più grande?
No. Se la differenza tra l’abito e il corpo è troppo grande, il processo di “confluenza” crea l’effetto opposto di “contrasto”. Ecco perché un vestito che a causa della sua dimensione eccessiva e completamente sproporzionato al corpo di chi lo indossa può, per contrasto, rimpicciolire la figura. Adesso capite come mai (tra i vari motivi) le modelle che sfilano nelle passerelle con aspetto piuttosto sgradevole e scostante, sono molto esili? E’ il modo più immediato per mettere in evidenza, per l’effetto di contrasto, il capo d’abbigliamento: esso è apparentemente così troppo voluminoso che viene messo in primo piano rispetto alla modella, la quale può essere paragonata al quadrato piccolo all’interno del quadrato molto più grande.

La misura eccessiva di un vestito non è l’unico fattore che interferisce con l’effetto di confluenza. Per produrre quest’effetto, le varie parti dei vestiti devono fondersi mentalmente in un’unità. Un indumento che non è percepito come parte dell’insieme del corpo (come ad esempio un cappello grande che minaccia di cadere)  può in questo modo compromettere il processo di incorporazione. In tal caso l’effetto può essere simile a questo:

Inoltre, implicitamente ci appropriamo degli effetti del vento che muove una sciarpa, una gonna o i capelli come se fossero stati prodotti da noi e sentiamo in questo modo accrescere la nostra potenza fisica (Cullis). Vi è la possibilità che simili effetti di vento abbiano rivestito un ruolo di notevole importanza nello sviluppo di indumenti voluminosi e ondeggianti, che accrescerebbero il senso di “influenza spaziale”.
In altre parole gli abiti fluenti, morbidi e voluminosi enfatizzano e prolungano i gesti del corpo e di conseguenza lo stato d’animo. Ma se interferissero con i nostri movimenti (come nel caso in cui un cappotto o un vestito impedissero il libero movimento delle gambe e delle braccia)? Le nostre sensazioni di potenza e di estensione in quel caso diminuiscono piuttosto che aumentare.
E’ tuttavia difficile stabilire esattamente quali sono le condizioni che producono al massimo il senso di estensione poiché esse ovviamente variano con le abitudini e i gusti individuali.
Nella maggior parte dei casi come dice Flaccus: “Meno l’attenzione viene distratta da fattori irritanti sulla superficie di contatto, più perfetta sarà l’illusione di estensione”. Infatti i tessuti rigidi che producono sensazioni spiacevoli alla pelle, a fatica vengono incorporati nell’Io. (Psicologia dell’abbigliamento, Flugel)

“Spesso è nel volume dell’oggetto che si nasconde la seduzione.
Questo fazzolettino di batista non avrebbe destato l’interesse di nessuno se non fosse stato così esiguo.
Sarà sostituito domani da un fazzolettone di seta traboccante dal taschino,
anch’esso, in modo opposto, fa pensare esattamente alla stessa cosa:
all’estrema piccolezza del naso”. Bibesco